Fare un cavallo, di William Kentridge


Fare un cavallo, di William Kentridge.

Articolo tratto dal libro “Sei lezioni di disegno” tenute in occasione delle Charles Eliot Norton Lectures alla Harvard University nel 2012.


Prendiamo dei pezzetti di carta neri. Di primo acchitto non vediamo nulla se non forme nere su un foglio bianco che ricordano vagamente le tele di Robert Motherwell. Poi li muoviamo sistemandoli in vari modi. È la nostra vista ad essere particolarmente generosa o è inevitabile riconoscere una sagoma, una forma, un cavallo? Attenzione: accade qualcosa di più che una volontaria sospensione dell’incredulità in virtù della quale, pur vedendo pezzetti di fogli neri, facciamo finta di riconoscere un cavallo. C’è più di questo. Non possiamo esimerci dal vedere un cavallo. Ci vuole uno sforzo, una deliberata cecità per continuare a vedere solo dei pezzetti di carta straccia, o meglio, per vedervi solo questo. Vediamo entrambe le cose senza ingannarci. Ci sono sia il cavallo sia la carta straccia. Questa è una sospensione involontaria dell’incredulità.

Quando diciamo che c’è un cavallo, intendiamo che c’è qualcosa sulla carta che innesca in noi il riconoscimento di un CAVALLO.

È importante qui distinguere tra sapere e riconoscere. Chiedete a qualcuno di disegnare un cavallo impennato sulle zampe posteriori: non è mica facile, se non siete Delacroix. Che distanza c’è tra gli zoccoli e la groppa? Che angolo si forma tra la mandibola e la prima vertebra cervicale? Che relazione c’è tra il garrese, la criniera e le spalle del cavallo? Quanto può incidere l’arco della spina dorsale sul ventre? Come si articola di preciso il muscolo superiore della gamba con il modello? Eppure basta muovere i pezzi di carta, sistemarli, ed ecco che il cavallo si impenna sotto i nostri occhi. Non sapevamo di saperlo. Possiamo riconoscerlo senza saperlo.

Questa forte esigenza di significato, di prendere i frammenti e comporre un’immagine, è presente non solo nel nostro guardare le ombre, ma in tutto ciò che vediamo. Il vedere diviene qui metafora di tutte le immagini e di tutti i modi in cui comprendiamo il mondo.

Anche riducendo le sagome e semplificando l’immagine, il cavallo non ci abbandona. Anche sotto forma di semplice pittogramma, in quei frammenti vedremo un cavallo e ricostruiremo Ronzinante.

All’interno c’è un senso di CAVALLO, una cavallinità che attende di essere innescata. Ronzinante, Bucefalo, il cavallo di Troia, Stubbs, il photofinish di una corsa: sono tutti lì. Il processo è duplice. Il foglio di carta viene verso di noi e il nostro senso di cavallo gli va incontro. Si ritrovano a metà strada. Il foglio di carta con le sue forme nere è diventata la membrana attraverso cui entriamo in contatto con il mondo. Il dato è insieme ovvio e sorprendente. Il disegno diventa un punto d’incontro, ma anche la soglia dove il mondo esterno incontra noi – dove incontra Stubbs, Ronzinante, i lemmi dell’enciclopedia, i ricordi delle cavalcate, i ricordi di quando sono caduto e il cavallo mi ha trascinato, piede nella staffa, per il nono fairway di un campo da golf, nel villaggio vacanze di Sani Pass, a dieci anni.

In qualche anfratto del cervello le immagini sono catturate, recepite, interrogate, ripulite e inviate in archivio con l’etichetta di cavallo. Il foglio di carta non è che un’estensione visibile della retina, una dimostrazione emblematica di quello che sappiamo ma non riusciamo a vedere. La nostra proiezione, il nostro andare incontro all’immagine, è una parte essenziale del processo visivo, dello stare al mondo con gli occhi aperti.

Riconduciamo tutto questo alla caverna di Platone: il fatto di riconoscere le sagome sulla parete non è un errore, un’aberrazione di persone intrappolate in un’illusione, ma una parte fondamentale del modo in cui recepiamo ed elaboriamo il mondo.

Fare un cavallo, di William Kentridge.

Di 24H Drawing Lab

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